La tariffa rifiuti si evade con più frequenza dove la bolletta media è più alta. La bolletta cresce insieme ai costi del servizio, che per legge devono trovare nella tariffa una copertura integrale, che si gonfiano dove mancano gli impianti di smaltimento.

Il deficit impiantistico, però, oltre a moltiplicare le spese per esempio con i viaggi dei rifiuti verso i territori dove i termovalorizzatori ci sono, complica la gestione del servizio e ne peggiora di conseguenza la qualità percepita. Ed è naturale che la propensione ai mancati pagamenti salga insieme al livello di insoddisfazione dei cittadini, perché in una città invasa ciclicamente dai rifiuti quello con la Tari diventa un appuntamento particolarmente antipatico. E tutti questi anelli costruiscono la catena del circolo vizioso in cui è invischiata gran parte del Centro-Sud.
A descriverlo in modo puntuale è un nuovo focus sul tema, pubblicato ieri dall’Ufficio parlamentare di bilancio per indagare «carico fiscale, riscossione e implicazioni sui bilanci dei Comuni» prodotti dalla Tari. È sufficiente scorrere le 31 pagine del focus per capire come mai proprio la Tari offra la sintesi delle cause e soprattutto delle conseguenze dell’evasione fiscale, e offra quindi lezioni utili anche in campi molto più ampi rispetto a quello della tariffa rifiuti.
Anche la sola Tari, del resto, non va sottovalutata. Perché con i suoi 10,5 miliardi di gettito annuo calcolati dall’Upb rappresenta la seconda entrata tributaria dei Comuni, in una graduatoria che si apre con l’Imu e relega alle posizioni successive tutte le altre voci, dall’addizionale Irpef all’imposta di soggiorno. La sua geografia è però sbilanciata da tutti i principali punti di vista, a partire da quello della capacità di riscossione. Sul punto, la fotografia che emerge dai calcoli dell’Upb è in linea a quella offerta la scorsa settimana dall’analisi condotta dall’Ifel nell’ambito del «Progetto riscossione» (Sole 24 Ore dell’11 dicembre). Fra 2021 e 2023 gli incassi effettivi si sono fermati all’85% dell’accertato, in una media figlia però di situazioni parecchio differenziate fra un Nord che riesce a portare in cassa il 94% delle somme attese, un Centro che si ferma all’86% e un Sud che riesce ad arrancare solo fino al 77 per cento. Questi buchi nella riscossione cumulano nei bilanci dei Comuni una mole di residui attivi da 15,2 miliardi di euro, enorme anche se in miglioramento rispetto ai due anni precedenti. Ma è soprattutto la distribuzione territoriale dei mancati incassi a inquadrare lo snodo centrale del problema.
Perché la mancata riscossione finisce per scaricarsi almeno in parte sulle bollette di chi invece paga puntualmente, per la clausola che impone la copertura integrale dei costi del servizio. E questo meccanismo si attiva soprattutto al Sud dove i costi sono già ingigantiti dal deficit di impianti. Perché il 71,5% dei rifiuti è stato trattato al Nord, il 9,7 al Centro e il 18,8 al Sud, dove invece dominano le discariche che raccolgono il 43,4% dei rifiuti contro il 26% delle regioni settentrionali. Il risultato sintetico di questo squilibrio, che la Missione 2 del Pnrr si propone di superare, è nei costi pro capite della quota variabile della Tari, quella che finanzia la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti (mentre la quota fissa serve a coprire lavaggio stradali, costi amministrativi e remunerazione del capitale): al Nord vale 178,2 euro medi, contro i 198,9 euro (l’11,6% in più) del Mezzogiorno e i 222,3 del Centro in cui pesa il dato di Roma. L’incrocio fra queste cifre e la qualità percepita del servizio alimenta l’evasione, insieme ai diversi livelli di efficienza amministrativa. E condanna il Sud.
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